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Agape Love - Sounds

Bron: Sounds, 1983
Auteur: S.Robertson

Popol Vuh - Agape Agape / Love Love

Kenneth Grant wrote a book called Outside the Circles Of Time. Popol Vuh are a little like that: beyond the vagaries involved in the usual machineries of joy (?) that hold sway and dominance in the business of music, Florian Fricke makes albums in Munich that avoid the crude fits and starts that pass muster as ‘progressions’ in rock. Apart from his early experiments with Moog synthesizers, his records could be shuffled and put in any sequence, rather like a Tarot deck. Intangible as dreams and spirits, they evoke traces of long-dead cultures and timeless Gods.

Here we are in Egypt of Greece of heaven (and I don’t mean the gay niteclub), with Florian caressing his ivories. If Werner Herzog is urged on by a pestiferous Daemon, then acoustic collaborator Fricke is his Guardian Angel on earth, no Lucifer but certainly a lightbringer. His guitarists Conny Veit and Daniel Fichelscher can make that much abused tool sound like the mystical vibration of platinum wires in an angel’s harp. But the part of Popol Vuh’s muse that always – initially and ever since the everlasting first time – shivers me timbers in the choral vocal effect, binding in its purity. One Renate Knaup is responsible, all praise deserved.

The titles are the usual gently informative yet vaguely pantheistic ecstasy symbols – ‘They danced, they laughed, as of old’; ‘The Christ is near’; ‘Behold, the drover summons’; ‘Why do I still sleep’…Why indeed? There’s still time to experience vinyl transubstantiation.

 Sandy Robertson

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Sei Still - Sounds

Bron: Sounds, may 2nd 1981
Auteur: Sandy Robertson

Popul Vuh - Sei Still, Wisse Ich Bin

Popul Vuh

Sei still, wisse ICH BIN (Innovative Communication Import)

Popul Vuh, aside from being the audio interpreters of West German filmmaker Werner Herzog’s startingly original and beautiful way of seeing things, continue to amaze in their own right. Months and months ago I reviewed the group’s soundtrack for Herzog’s Nosferatu, a brilliant piece of maximum minimalism if you will, but since their records never get released here (a crime) I hadn’t really given them much further thought until I saw this latest import platter in the racks. What a boon!

Herzog looks at things with a fresh baby eye. And Popul Vuh take rock instruments and play them like no one else ever did. For underneath the baton of their guiding light and figurehead Florian Fricke. Popul Vuh make utterly wonderful (in the truest sense of the word) music. Under the banner of Klaus Schulze productions they may well go, but they are not a synthesizer group! The desert scene on the sleeve, with its white-robed men hints at ethnomusical dabbling. Since I can’t read German, I can only scream for explanations. And how about an interview? To imagine ‘Sei Still’, imagine feedback sweet as honey.

If you’ve ever attempted to put into words for  a friend what makes a Herzog movie so unique, and failed, maybe you’ll be able to sympathise with the way I can’t quite capture the pulse here. So many labels yet  they can’t be labelled, vocals cold as fresh snow falling.

There’s a choral, quasi-religious tone-poem groove. It’s relaxing without being dull, gentle without being moronic. It’s like watching the ocean at sunset, the desert at night, the sky at dawn.  The last track on side 2, ‘… als lebten die Engel auf Erden‘, has an intro that momentarily caught my ear and made me think of The Beach Boys on ‘Do  it again’, but that’s just the way music is: it allows the mind to free-associate while rendering the critical faculties somewhat redundant.

Think deep, think Tom Verlaine, thin sleep, think narcotic intensity. Think for yourself. Think about buying this record. Think about learning German, ‘Wehe Khorazin’? Yeah.

Sandy Robertson

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POPOL VUH IN DEN GARTEN PHARAOS - Super Sound

Bron: Super Sound, nr.14, 1973, p.6
Auteur: F.Ghisellini

Popol Vuh - In den Gärten Pharaos

E continuiamo il discorso sulla musica tedesca. questa musica cosi ‘nuova’ e coraggiosa, che si va lentamente imponendo nel panorama europeo. Inutile dire che, come sempre avviene quando si tratti di educare il pubblico piuttosto che di pascerlo. i detentori del potere (in questo caso discografico) continuano ad ignorarla completamente; e purtroppo non sono i soli. Mi riferisco a ‘Per voi giovani’, la trasmissione radiofonica che (naturalmente in teoria) dovrebbe costituire l'unica possibile via di diffusione di tutti quei musicisti che, in un modo o nell'altro. cerchino di ribellarsi al Moloch del Taratapunzipè (salvo poi sostituirvi il du-dudu-dudu di Lou Reed ed il suo degno compare Bowie).

Stando così le cose, a noi ascoltatori ‘giovani’ non resta che spegnere la radio. E cercarci i dischi da soli, sperando di trovare qualcosa di buono. e soprattutto qualcosa di ‘puro’.

Come questo ‘In den Garten Pharaos’ album che non è certo di recente pubblicazione; tuttavia in Italia è stato distribuito cosi poco e cosi  male che ben nochi avranno avuto occasione di ascoltarlo e di fare cosi  conoscenza con la musica dei Popol Vuh. Questo gruppo Tedesco è da noi completamente sconosciuto ( come lo  sono, del resto, I confratelli Grobschnitt). mentre in Germania rientra senz'altro nell'esigua schiera di quelle formazioni. che pur portando avanti un discorso di alto livello, riescono anche ad esercitare una notevole presa sul pubblico. Bisogna dire subito che si tratta di un trio. i cui componenti sono Frank Fiedler (Moog-Synthesizer ed effetti speciali). Holger Trülzsch (percussioni Africane e turche) e Florian Fricke (Moog-Svnthesizer, organo e piano Fender). Ecco, basta dare una occhiata alla strumentazione per comprendere quanto la loro musica debba discostarsi dai modelli tradizionali: e basta sapere che le due facciate ospitano altrettanti pezzi per immaginare, se non altro, l'audacia o meglio l’originalità del messaggio dei Popol Vuh. Questa volta non ci troviamo davanti a trasfigurazioni più o meno ideali di pur sempre concrete realtà; non si affrontano temi sociali e politici, né al contrario ci si rifugia in quel puntinismo realista e bozzettistico che in fondo in fondo non scuote di un millimetro le nostre placide posizioni mentali. Per i Popol Vuh non si può parlare di disimpegno, né tanto meno di impegno (almeno dal punto di vista ideologico); è semplicemente qualcosa di diverso. Qui la rivoluzione si fa a monte, o meglio si dà per scontata in partenza; non c'è passaggio dalla realtà alla fantasia, non c'è alcun raffronto, o per lo meno non in superficie, tra il mondo tangibile e quello delle idee più impalpabil. Qui si parte dal sogno. E ci si rimane. Già il titolo del primo pezzo (lo stesso dell'album. ‚nei  giardini del Faraone‘) ei introduce in un mondo onirico fatto di sensazioni inquietanti e fuggevolì, in una atmosfera sospesa e solenne piena  di profumi, di incantesimi, e di suggestioni remote.

Il coro muto che introduce la lunga suite sembra proprio ideato appositamente, ed è come se i tentacoli vellutati ma pericolosi di una invisibile piovra ci trascinassero lentamente verso il mondo dell'irreale, lungo un corridoio oscuro che sembra non finire mai.

Il Mogg fa la sua comparsa in sordina, mudolandosi sulle stesse tonalità delle voci ed accennando. dapprima lentamente. il tema base del pezzo, ben presto sorretto dall'entrata delle Kongas.

Le percussioni acquistano poi un ritmo sempre più sostenuto, in netto contrasto con l'espressione dolce e morbidissima del Moog: in questi momento possiamo notare come le consuete funzioni strumentali siano state praticamente ribaltate: e, in effetti mentre la parte percussionistica assume tale risalto fe coesione. tra una battuta e l'altra sulle Kongas) da diventare prevalente e quasi solista, le pause fra gli interventi del Moog sono cosi dilatate da assegnare la funzione ritmica proprio al sintetizzatore.

L'atmosfera è veramente quella del sogno. pregna di umori conosciuti e intangibili al tempo stesso:  ed è certo che anche l'intervento finale del piano contribuisce non poco alla creazione di tali momenti, tanto rarefatti quanto inconsciamente veri, e reali. C’è come il persistere di qualcosa che non riusciamo a cogliere appieno sebbene lo sentiamo vicino e presente, sebbene la musica ci avvolga proprio come il velo di una odalisca egiziana, addormentata ‘nei giardini del Faraone’. E’ la stessa sensazione che si può provare ascoltando alcuni pezzi dei Pink Floyd (la parte iniziale di ‘A saucerful of secrets’ ad esempio), sebbene gli sviluppi musicali del gruppo inglese siano completamente diversi. La cataratta iniziale di suoni astrali e disarticolati ha nei Pink Floyd funzione strumentale, serve ad introdurre il misticismo melodico della catarsi finale: la loro musica risorge sempre, emerge da un magma ribollente dei fotogrammi sonori e sale, sempre più in alto. Quella dei Popol Vuh non vi riesce: resta immersa nel calderone dei sogni più confusi ed indefiniti, non si conclude mai.

Non a caso ho citato ‘A saucerful of secrets’ a proposito dell'album dei Popol Vuh: infatti, come ‘In dem Gärten Pharaos’ ne rispecchia il primo momento, ‘Vuh’ (l'altra facciata dell’album) può per certi versi ricordare la parte finale dello stupendo pezzo dei Pink Floyd. L ‘intero svolgimento della suite ‘Vuh’ è accompagnato da maestosi accordi di organo, sottolineati inizialmente dall’uso magistrate del gong: basta questo per farci sognare la solennità delle cattedrali gotiche, il misicismo trascendebte delle guglie che siinnalzano purissime a toccare il Cielo, il desiderio atavico di ascendere, di salire lentamente oltre le nuvole e arrivare a Dio. L'atmosfera creata è veramente incontaminata e celestial; sul tema orininario dell'organo si innestano i giochi informali di Trülzsch alle percussioni metalliche turche, che sembrano continuamente sul punto di disgregare l‘unità del brano, sorretto invece efficacemente dal piedistallo saldissimo dell’organo.

Il sintetizzatore interviene solo nel finale, quasi a dissolvere verso l ‘altro il robusto disegno armónico dell’organo a canne della chiesa di Bamburg, quasi a intrecciarsi sinuosamente con la vibrante base Sonora che continua a vivere fin dall'inizio del pezzo, e ne costituisce la fine stessa, ‘Kosmische musik’, é stata definita quella dei Popol Vuh, ‘musica cosmica’:  ed in certi punti quella che potrebbe sembrare solo una definizione pretenziosa arriva decisamente a possedere un fondo di realtà. H limite consiste a mio avviso in una certa dispersività musicale, per cui (specialmente in ‘Gärten Pharaos’) le frasi sonore sono dilatate in modo forse eccessivo rispetto alle reali esigenze contenutistiche. Tuttavia questo è un difetto facilmente riscontrabile in molti dei gruppi tedeschi. che sembrano non porsi le esigenze di sintesi tipiche delle formazioni anglosassoni. E' vero, qui non può certo parlare di scarna essenzialita: tuutavia la ripetitività non degenera mai in monotonia, soprattutto se si riesce a valutare esattamente il lavoro vivificatore svolto dalle percussioni di Trülzsch, a mio aviso veramente notevole. Comunque a parte quelle che possono essere le considerazioni tecniche (almeno in questo caso piuttosto secondarie), ci resta la stupenda realtà di un pezzo come ‘Vuh’, decisamente uno dei migliori mai prodotti dai gruppi Tedeschi. Cerchiamo quindi di conoscere meglio questa musica, perché questa è la musica nuova, la musica pura, la music ache potrà essere discussa e contestata, ma che non potrà mai essere tacciata  di commercialism o di faciloneria: i Popol Vuh ‘sentono’ profondamente ouello che cercano di esprimere, e basterebbe questo, indipendentemente da ogni altro elemento, ad elevarli di una buona spanna rispetto alla grande maggioranza degli altri gruppi in attività, mai come oggi protesi verso il facile successo di una formula collaudata, piuttosto che in direzione della musica, quella vera.

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Un sound fra la bibbia e i crauti

Bron: Tempo, 1975
Auteur: M. Fumagalli

Un sound fra la bibbia e i crauti

Popol Vuh, per gli etnologi, è il nome del libro sacro di una tribù Maya, i Ouiché: per gli appassionati di - pop -, il gruppo tedesco più atipico e convincente degli ultimi anni. Il suono teutonico

(o  ‘krautrock’, come lo hanno ribattezzafo ironicamente gli inglesi) sembra attualmente in una fase di stasi, dopo avere catalizzato attorno ad un paio di nomi-guida le speranze di chi vedeva nella fusione tra l’elettronica e le strutture ritmiche del rock una consistente ipotesi di evoluzione musicale. Solo chi ha saputo rinnovarsi, anche questa volta, è sopravvissuto al lento ma inevitabile inaridimento creative.

I Popol Vuh si erano imposti di prepotenza all'attenzione del pubblico europeo nel 1973, con ‘In Den Garten Pharaos’, un’incisione realizzata in una chiessa di Colonia, possente e profondissima, totalmente giocata su ipnotici disegni elettronici. Il disco proponeva con ottima puntualità un suggerimento originale nell'approccio al suono: non più la ricezione passiva di una prevedibile serie di melodie, ma l'uso della materia musicale come bisturi psichico, invito ad un'introspezione emotiva prolettata nella coscienza individuale. Ma già l’ album successive ‘Hosianna Mantra’, era destinato a sconcertare chi aveva voluto vedere nei Popol Vitti gli ennesimi paladini dell’elettronica. Il suono diventa completamente acustico (una chitarra elettrica l'unica eccezione) ed iI messaggio che esce dal testi è impregnato di una nuova luce, di una religiosità dai contorni dolcissimo. L’osanna della tradizione cristiani ed il mantra (sillaba sacra) orientale: ‘Un appello ad un suono esultante e piangente’ dice Florian Fricke, leader della formazione, ‘una musica tesa a riportare Ia Pace e l'Armonia’.

Continue improvvisazioni

Sulla scia dei sottilissimi vocalizzi di Diong Yun, la nuova cantante, il suono dei Popol Vuh inizia a prendere forma. II tentativo è semplice e complicatissimo: ridare vita al messaggio contenuto in alcune pagine dei testi sacri —principalmente della tradizione cristiana — innestandoli su una musica capace di unificare la lezione del rock californiano con la tradizioni, romantica mitteleuropes,  ‘Seligpreisung’ (beatificazione), ‘Einsjager & Siebenjager’, il recentissimo  ‘Das Hohelied Salomos’ portano a compimento l'opera di definizione della struttura musicale. Una musica straordinariamente comunicativa, proprio perché capace di trascendere la dimensione confessionale del messaggio religioso e di riproporto nella sua essenza universale, accettabile sempre e comunque da tutti. Una musica che affida il suo fascino ad una dimensione sfumata, meditative: In cui non è difficile riconoscere una parte delle nostra stesse emozioni quotidiane. Anche perché i pericoli di una eccessiva  cristallizzazione estetico, di un rigido formalismo sono evitati brillantemente grazie alle continue e ricchissime Improvviaazioni.

Il nome dei Popol Vuh torna ora alla ribalta legato ad un avvenimento decisamente inconsueto: un concerto gratuito, all'aperto, in una piazza di Milano, il primo da quando dedicarsi alla ‘musica per le strade’ era divenuta la parola d'ordine dei movimenti della controcultura statunitense. Tocca ai Popol Vuh inaugurare l'auspicabile nuova era di una politica culturale aperta e dinamica. Occorre un augurio? Che non ai tratti di un episodio isolato …

 

 

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POPOL VUH In den Gärten Pharaos POP2000

Bron: POP2000, nr.16, april 1973
Auteur: Christian Robquin

Popol Vuh - In den Gärten Pharaos

POPOL VUH

In den Gärten Pharaos

BASF 20 21276-9B

Production Ohr et P{ilz

In den Gärten Pharaos (17:37)

Vuh (19:48)

Personnel: Florian Fricke (moog synthetizer, orgue, piano Fender), Franck Fiedler (moog-synthesizer, mixdown) Holger Trülzsch (percussions africaines et turques)

Ce disque arrive à point, juste après la nouvelle invasion musicale germanique.

On y prend gout à cette ‘cosmique-musique!’. Deux longs morceaux suffisent à nous convaincre (j’ai quand même du écouter le disque 4 fois car mes peutes oreilles ne jouissaient pas encore à ces on d’outre-Rhin!)

Le premier ‘In den Gärten Pharaos’ s’ouvre et se ferme sur un bruit de clapotement d’eau très agréable à l’écoute, puis des sonorités s’y superposent, enfin, les percussions turques interviennent (elles ne sont pas pré-enregistrées sur bandes mais jouées ‘live’ dans le studio d’enregistrement).

Le gros moog de studio utilisé pas Florian prend parfois des sonorités de hautbois qui me font irrésistiblement songer au chant des sirènes appelant les marins afin qu’ils échouent sur des récifs ( la bonne Lorelei allemande!) avant de les entrainer dans les fin-fonds marins. Un même accord prolongé indéfiniment sert de toile de fond à cette promenade dans le jardin.

L’apothéose finale est très ‘jazzy’. Des notes douces sont égrenées par un piano Fender (Keith Jarrett, le pianiste de Miles Davis, ne se sentirait pas perdu dans ce cadre germanique!) puis nous débouchons, on ne sait comment, sur un ryhtme endiablé ( presque de samba!). POPOL VUH fait partie de ces groupes qui ont inventé le Munich Sound (la ‘west coast’ allemande, à peu de chose près!) avec, notamment, Amon Düül II. ‘Vuh’ (sur l’autre face) en est l ‘illustration parfaite avec son allure très mystique bien que guindée due aux grandes orgues de ‘Stiftkirche Bamberg’. Les vibrations des cymbales et des gongs, ainsi que la modulation plus ou moins intense des voix ( humaines ou électroniques?) nous plongent encore dans l ámbiane ‘wagnérienne’ bien que les musiciens de Popol Vuh s’en défendent.

Cette mjusique puissante, parfois assourdissante dans cet album, détient une force secrète capable de transformer un marxiste pur (tel Florian Fricke) en lui faissant rencontrer les mystères de l’au=delà. Qui aurait pu jurer qu’un moog synthesizer pouvait conduire, par ses vibrations, un humain à la religion?

A la fin de ‘Vuh’, l’orgue étourdissant, au bruit fuyant progressivement dans le lointain, nous montre ‘la route’de la nouvelle recherche ascétique. En somme, c’est un bomn disque religieux indispensable à tous les fidèles croyants du culte universel de la Pop (et ca, c’est une phrase envoqée, si vous ne la comprenez pas, écrivez-vouis!).

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